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Calendasco: una storia di bene comune
di Elisa Toma
Una storia di bene comuneElisa Toma
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Un cantiere giovane, dinamico e multiculturale. I ragazzi richiedenti asilo di origine africana arrivavano in bicicletta, gli studenti francesi in treno da Piacenza. Gli architetti, gli ingegneri e i geometra della Scuola Edile hanno messo insieme le loro idee per riprogettare gli spazi interni. Oltre 200 studenti delle scuole medie di Calendasco e degli istituti superiori di Piacenza hanno immaginato come sarebbe dovuto essere, a chi intitolarlo (alla fine hanno scelto Rita Atria, testimone di giustizia) e come usare la loro inventiva per trasformare quell’immobile in una sede della legalità. La dedizione di ciascuno è stata indispensabile. La sinergia tra l’amministrazione comunale di Calendasco e Libera determinante. Ognuno ha dato una mano e quelle mani sono state dipinte sulla facciata esterna del capannone. Mani di tempera che sono state cancellate e fregiate più volte, e ricolorate, per ricordare che quel bene appartiene a tutti ma non alla mafia. All’interno, invece, da un mosaico si legge “Italia, Africa, Francia” per sottolineare che giustizia e legalità sono ideali che non conoscono confini territoriali e per i quali battersi ovunque. 

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Dopo un lungo iter giuridico, quel capannone il 12 maggio 2018 è stato restituito alla sua comunità di Calendasco e oggi è il simbolo della resistenza di chi ribadisce il proprio ‘no’ alla criminalità organizzata. Un bene comune, il primo confiscato alla mafia e riassegnato ad un’istituzione pubblica per la sua cittadinanza in Emilia-Romagna. 
Ma facciamo un passo indietro.


Dal sequestro alla riassegnazione 

L’immobile, un capannone nel territorio di Calendasco, è stato sequestrato nel 2009 al titolare di una ditta che noleggiava auto-gru.  Il sequestro è stato poi confermato dalla Corte d’Appello di Palermo il 6 febbraio 2012 e il titolare condannato per reati di mafia, nello specifico, come recita la sentenza, per “delitto di favoreggiamento reale aggravato”. A seguito della sentenza di Palermo, sono stati confiscati diversi immobili tra Sicilia e Emilia-Romagna: compreso il capannone di Calendasco. La confisca definitiva è arrivata il 25 ottobre 2012 con una sentenza della Corte di Cassazione. Solo nel marzo 2016, l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata ha consegnato il bene al Comune. È stato il primo caso in Emilia-Romagna di bene riassegnato al pubblico.


L’amministrazione ha seguito l’iter giuridico con costanza, manifestando da subito l’intento di restituire il bene alla comunità, lavorando fianco a fianco con Libera Piacenza. Il 7 marzo 2016, in occasione del ventesimo anniversario dell’approvazione della legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alla mafia, votata in Parlamento su proposta di Libera, a Calendasco è stata organizzata una grande assemblea pubblica. 


Fu proprio in quella data simbolica che l’allora sindaco, Francesco Zangrandi, comunicò ai suoi concittadini la presenza sul proprio territorio di un bene confiscato e le proposte per il suo riutilizzo. «Ricordo che i partecipanti all’assemblea erano increduli e disorientati. Tanti come me, pensavano che il nostro fosse un territorio immune alle infiltrazioni mafiose». A rievocare quei giorni di grande disorientamento è l’attuale primo cittadino di Calendasco, Filippo Zangrandi. «Ricordo lo stupore delle persone. Ricordo un anziano alzarsi e chiedere: “Com’è possibile che non ce ne siamo mai accorti?”. Era difficile riuscirci. I fatti mafiosi si riferivano ad avvenimenti avvenuti in Sicilia e quei mafiosi in Emilia-Romagna svolgevano principalmente attività economiche». 


Da tempo le ramificazioni della criminalità organizzata non sono più circoscritte nelle sole regioni di origine, ma si sono estese in tutta Italia e all’estero, dove l’economia è più fiorente e i mercati più attivi e dinamici. «Spesso la mafia sceglie di insediarsi in piccole realtà per far passare le proprie attività inosservate e continuare a avere il controllo delle grandi aree vicine», spiega Antonella Liotti, referente di Libera Piacenza.

 

Il percorso verso il bene comune 

«Le scuole - racconta ancora il sindaco - sono state un alleato fondamentale. Ogni anno abbiamo svolto percorsi di educazione alla legalità con gli istituti locali e le superiori di Piacenza: un lavoro che prosegue ancora oggi. Sono stati proprio i ragazzi a scegliere di intitolare il bene a Rita Atria, testimone di giustizia. Gli studenti hanno seguito passo dopo passo la riqualificazione contribuendo con le loro idee».

 

Il cantiere è partito due anni prima del taglio del nastro nel 2018. Protagonisti della riqualificazione sono stati geometra, architetti e ingegneri della Scuola Edile di Piacenza che avevano partecipato al concorso di idee indetto nel 2017 dal Comune per la riprogettazione degli spazi interni. Da ciascuna proposta presentata, sono state selezionate le idee migliori. Il primo passo è stata la messa in sicurezza e la sanificazione dello stabile, eliminando le componenti in amianto dal tetto. Alla riqualificazione hanno preso parte 16 richiedenti asilo accolti all’ostello cittadino “Tre corone” e gli allievi francesi del centro di formazione per l’apprendistato di Boix, a Piacenza per un progetto di scambio formativo e lavorativo. La Regione ha sostenuto il 70% della riqualificazione. 


L’inaugurazione

Il 12 maggio del 2018 il bene confiscato alla mafia è stato finalmente restituito alla comunità di Calendasco con una grande festa cui hanno partecipato il presidente della Regione Stefano Bonaccini, Don Luigi Ciotti e Enza Rando, avvocato di Libera. Laboratori creativi, giochi, spettacoli teatrali, mostre fotografiche, tornei di calcetto, pranzo sociale, visite guidate al bene confiscato con i volontari di Libera Piacenza hanno decretato il passaggio del bene alla comunità di Calendasco.


«Il nostro obiettivo - conclude Antonella Liotti - è sempre stato quello di fare del bene una casa della legalità per tutta l’Emilia-Romagna e, dopo anni di lotte e di duro lavoro, quel capannone è diventato per noi un motivo d’orgoglio. Vedere i bambini correre per le sale, padroni del bene, ci ha fatto dire “siamo liberi, ce l’abbiamo fatta!”. Questa è la nostra vera vittoria».

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